Published On: Dom, Apr 7th, 2024

(Inchiesta)Pacchetto Colombo e il sacrificio di Eranova: Politica & Devastazioni ambientali…la storia si ripete

Ai più, “Pacchetto Colombo” oppure Eranova, non diranno nulla. Dietro questi due nomi c’è però un pezzo importante di storia del nostro Paese. Partiamo dal principio. Nel 1970 vedono la luce le Regioni italiane, di cui abbiamo già trattato il tema sulla loro forma amministrativa. Fra le regioni istituite, in particolare per la Calabria, si decide che lo storico capoluogo della regione, Reggio Calabria, sarebbe diventato Catanzaro. La Calabria è in quegli anni fra le regioni più povere d’Italia ed il malcontento lo si vede alle stazioni ferroviarie dove migliaia di calabresi prendono la strada dell’emigrazione. Questa scelta del Capoluogo, meramente politica, ma venduta come una scelta di centralità geografica di Catanzaro, innesca una rivolta fra i cittadini di Reggio Calabria.

La rivolta sarà durissima è terrà in scacco la città dello Stretto per oltre 6 mesi. Fra i quartieri reggini si formeranno le barricate: sarà guerra! Il bilancio risulterà pesantissimo: 5 vittime, 2.000 feriti e 800 arresti. L’esercito interverrà per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale in questioni di ordine pubblico. La rivolta verrà cavalcata e strumentalizzata da diverse parti e si insinueranno nella protesta popolare: malavita, servizi segreti deviati e frange politiche eversive. Sarà la rivolta del motto “boia chi molla”. E’ l’inizio degli anni di piombo e con la strategia della tensione vengono sfruttate anche queste rivolte popolari per sobillare la violenza. Su questi fatti si innestano il tentativo di Golpe Borghese dell’8 dicembre 1970 e la strage di Gioia Tauro con l’attentato al treno del Sole, nel luglio 1970, con altre 6 vittime. Questi problemi di ordine pubblico, che potevano sfociare in ben altro a livello nazionale, erano diventati una spina nel fianco del governo di allora guidato dal democristiano Emilio Colombo. I cittadini, dopo diversi mesi di barricate, erano stanchi e fu così che il governo tirò fuori il cosiddetto “pacchetto Colombo”. Il capoluogo non fu lasciato comunque a Reggio, ma venne bensì, sulla carta, promesso molto di più: il lavoro!

L’azione del governo prevedeva dunque per la Calabria questi piani: il capoluogo e la sede Regionale a Catanzaro, l’assemblea del Consiglio Regionale a Reggio e l’Università a Cosenza e per “tranquillizzare” ulteriormente i reggini vennero promessi 10 mila posti di lavoro diretti. Come? Con la realizzazione del quinto polo siderurgico a Gioia Tauro, borgo agricolo a 50 km da Reggio, e un Liquichimica a sud della città dello Stretto a Saline Joniche. Queste promesse furono sufficienti a calmare le acque in vista di questa pioggia di investimenti. In particolare il quinto polo siderurgico prevedeva la costruzione di una grande area industriale nella Piana di Gioia Tauro, allora conosciuta solo per le coltivazioni di agrumi e olivi. Insieme alle industrie dell’acciaio sarebbe poi stato realizzato un grande porto per l’esportazione dei prodotti metalliferi realizzati in loco.

Sfilate di ministri da Roma scesero in Calabria per promuovere questo grande progetto che portava (sulla carta) impiego in una regione dove c’era fame di lavoro. (Qui il discorso di Giulio Andreotti alla posa della prima pietra). La questione del capoluogo poteva essere messa in secondo piano visto che veniva portato il “progresso” e che sarebbe finito il tempo dell’emigrazione. Piogge di miliardi di lire (1.300) avrebbero reso la punta dell’Italia un piccolo “Bengodi”. Come al solito però mai nulla è a costo zero, oltre a grandi risorse economiche cosa si sarebbe dovuto sacrificare? Beh per qualcuno poco o nulla: 700.000 alberi e il borgo di Eranova (frazione di Gioia Tauro) con qualche centinaio di abitanti. Le promesse politiche valevano molto di più che quattro aranceti e quattro case. E la gente ci credette. Quando hai poco o nulla ci si attacca a tutto e ogni speranza di un futuro migliore è degna di essere presa in considerazione prima di prendere la valigia.

Il progetto, buttato lì in quatto e quattro otto, partì nel momento peggiore. Era iniziata la crisi mondiale della siderurgia. I poli italiani dell’industria iniziarono ad andare in perdita e di molti si pensava alla chiusura. Nel frattempo il progetto “Colombo” andava avanti anche se i posti promessi venivano via via ridotti per la crisi in corso. Andava avanti spedita invece la devastazione ambientale sradicando ulivi secolari e aranceti. Una zona a totale vocazione agricola, sottratta alle paludi a fine ‘800 con un mare splendido vista Eolie, veniva via via sacrificato per il “progresso”. Il borgo di Eranova talaltro aveva una storia nobile perché nato da un gruppo di contadini che si erano rivoltati contro i latifondisti locali per costruire un proprio futuro e quindi una “era nuova”. Ma questa era nuova sarebbe stata spazzata da una nuova era quella del millantato progresso e del lavoro. A nulla valsero le proteste dei cittadini ai quali venivano via via demolite le abitazioni. Da un borgo vivo, anche turistico e verdeggiante, giorno dopo giorno, si trasformava in un deserto di sabbia. Un bellissimo recente romanzo storico, “Un Paese Felice” di Carmine Abate (Mondadori 2023), rimette luce sulla storia di Eranova e dei suoi abitanti che provarono a non piegarsi a questo folle progetto.

Lido Playa di Eranova prima della distruzione

Folle progetto perché non venne mai realizzato (come molti profetizzavano, ma venivano visti come Cassandre) e ancora più folle se si fosse realizzato perché avrebbe ulteriormente devastato ambientalmente un territorio a due passi dal Parco Nazionale d’Aspromonte e causato problemi di salute ai cittadini, come purtroppo accaduto a Taranto. Di questo mega progetto di certo resta la distruzione delle piantagioni nobili di olive e arance e la cancellazione dalla mappa geografica di Eranova. Ad un certo punto, dopo diversi miliardi spesi, si decise di non andare avanti con il polo siderurgico, ma di proseguire nella realizzazione del porto e di sostituire l’industria con una grande centrale a carbone. Il porto sarebbe servito per portare il combustibile fossile e produrre così energia. Ovviamente anche il progetto della centrale saltò e si andò avanti solo con il porto.

Cosa resta oggi di quella rivolta e di quelle promesse? Restano, come dicevamo, le devastazioni di 1.400 ettari di terreni agricoli, resta la fame di lavoro. Ne è nato solo un porto che sembrava essere destinato a restare chiuso se non fosse che nel 1994 lo si destinò a grande porto commerciale (unica forse azione fortunata in questo delirio). Oggi fa comunque amaramente sorridere un articolo della Stampa del 29 novembre 1996 che nel titolo recitava così: “Gioia Tauro sarà come Hong Kong”. Basta però pensare invece all’estremo degrado odierno del quartiere gioiese Ciambra; di cui un film del 2017 (disponibile su RaiPlay) ne ha raccontato le tristi vicende. Pensiamo alla tendopoli (smantellata) della vicina San Ferdinando nota alle cronache per le storie dei migranti impiegati nella poverissima agricoltura della Piana. Le arance qui vengono pagate ai produttori pochi centesimi e qui si innesta una guerra fra poveri, altro che Hong Kong! Qui oggi si continua ad emigrare e a restare gli “ultimi della classe” come recitava una provocatoria (ma fino ad un certo punto) campagna pubblicitaria di Oliviero Toscani.

Archivio Storico La Stampa

Questa storia si estende con altri “cadaveri” e “lasciti”. Diverse altre “compensazioni” per il mancato capoluogo sono qui e là abbandonate. Citiamo la Liquichimica di Saline Joniche che avrebbe dovuto produrre bioproteine da derivazione petrolifera. Guarda caso fu scoperto che erano cancerogene e lo stabilimento, con una grande ciminiera ancora lì ad eterna memoria, rimase aperta solo qualche mese. C’è inoltre una importante diga (104 metri) che era stata realizzata a monte della Piana di Gioia Tauro a supporto del quinto polo siderurgico. La diga su Metramo, una opera imponente, conclusa solo qualche anno fa. Il manufatto è fra le dighe in materiali sciolti più grandi d’Europa, ma è oggi mozza perché non riesce neppure a dar da bere alle grandi piantagioni che fortunatamente sono rimaste, nonostante le devastazioni. La diga non alimenta neppure nessuna centrale idroelettrica che oggi sarebbe una manna dal cielo per la produzione di energia rinnovabile. Fra gli altri “lasciti” vogliamo parlare delle piogge di miliardi che sono state opportunità uniche per le cosche? Tanti soldi che hanno scatenato guerre di ‘Ndrangheta fra le realtà della Piana e arricchito chi queste guerre le ha poi vinte. Una striscia di sangue, con decine di vittime, da aggiungere a quelle della rivolta.

E i cittadini onesti cosa ne hanno in mano? Un pugno di mosche! In sostanza la rivolta di Reggio non ha portato a nulla finendo tutto in una grande beffa, o meglio truffa di Stato che ha devastato territori dal punto di vista ambientale e sociale. In questo mare di soldi pubblici forse solo la tardiva idea del porto commerciale ha portato un po’ di occupazione (circa 1.300 persone contro le 10.000 promesse nel pacchetto) che è nulla in confronto allo scotto pagato. Una idea che ha provato a salvare il salvabile anche se ormai il patrimonio ambientale e sociale era stato sacrificato. Oggi Gioia Tauro è uno dei porti più importanti d’Europa e del Mediterraneo ed uno scalo importante per le merci che arrivano dall’Asia verso l’Europa (Suez permettendo). Purtroppo in una terra, rimasta povera, dove è difficile scardinare il malaffare, il porto container viene anche usato come centro nodale del grande traffico di cocaina dal Sud America verso l’Europa. Fortunatamente spesso la Guardia di Finanza riesce ad interrompere questo flusso.

Si pone a questo punto una questione morale. Con tutti quei soldi quante vite si sarebbero salvate con una sanità migliore? Quante persone sarebbero state sottratte alla malavita se quei soldi fossero stati investiti nella vera vocazione di questa terra favorendo prezzi più equi per i contadini? Quante persone in meno sarebbero emigrate se ci fosse stata la lungimiranza di pensare a progetti sostenibili senza guardare alle successive elezioni? Con i se e con i ma la storia non si fa, ma di certo queste pagine di storia non devono rimanere nell’oblio quindi dobbiamo essere grati a scrittori come Carmine Abate che hanno riportano alla luce questa storia.

Questa storia è però ancora oggi attualissima e si ripete. E’ notizia di pochi giorni fa dell’inizio degli espropri legati alla realizzazione del Ponte sullo Stretto. Tema che stiamo ampiamente seguendo con GeoMagazine.it. Anche qui sono partite le solite promesse politiche, migliaia di posti di lavoro e progresso. Sembra però di rivedere i film già visti a Reggio negli anni ’70. Sembra anche di sentire le proteste non ascoltate dei cittadini di Eranova che con il senno di poi non avevano ragione, di più! Il ponte promette progresso ed è vero che i ponti spesso uniscono, ma in questo caso nuovamente l’impatto ambientale sarà molto alto (scritto nero su bianco dalla Valutazione di Incidenza Ambientale firmata dalla commissione del Ministero dell’Ambiente nel 2011). Il beneficio del Ponte non è ben quantificato ed incerto, e anche qui qualcuno sarà sacrificato con le demolizioni delle proprie abitazioni o attività commerciali, senza citare i danni ambientali in una area protetta come quella dello Stretto. Purtroppo non impariamo nulla dalla storia e tra l’altro recente. La storia di Eranova sembra nuovamente prospettarsi in tutte le sue sfaccettature in un film già visto e devastante. Di quel piccolo borgo libero che si affacciava sul Mar Tirreno, di fronte alle Eolie, rimane solo più una unica cosa: la stazione ferroviaria oggi abbandonata e contornata di rifiuti. Qui il treno del millantato sviluppo era passato, ma sarebbe stato meglio non prenderlo!

Stazione di Eranova-Aprile 2024 (Credit G.Cutano)

Fonti consultate: Consiglio Regionale Regione Calabria, ICalabresi.it, RaiPlay, Archivio Storico La Stampa, Un Paese Felice (Carmine Abate – Mondadori 2023), Fatto Quotidiano, WikiSource, Blu Notte di Carlo Lucarelli, Osservatorio Diritti

About the Author

- Ingegnere Ambientale, laureato presso il Politecnico di Torino, si è specializzato in difesa del suolo. Oggi si occupa di progettazione di impianti ad energia rinnovabile e di sviluppo sostenibile della montagna, con focus sulla mobilità elettrica. Volontario di Protezione Civile, ama la natura, ma anche i social media e la fotografia. Per compensare la formazione scientifica coltiva lo studio della storia e delle scienze politiche. * Contatti: giuseppe.cutano@geomagazine.it * * IG: @latitude_45