Devétéya: il ritorno dalle stelle alpine
Cogne, settembre. L’aria taglia la pelle e profuma di fieno secco. I pendii si tingono d’oro e ruggine, le prime nebbie si stendono al mattino come veli lenti sopra i pascoli. È in questo tempo sospeso che, da secoli, le vacche scendono dagli alpeggi. La Devétéya — il rientro delle mandrie a valle — non è solo una festa: è un rito ancestrale, un canto corale che lega l’uomo, l’animale e la montagna in un’unica, antica preghiera.
Chi ha vissuto anche solo una volta la Devétéya di Cogne sa che non si tratta di una semplice sfilata di bestiame addobbato a festa. È un ritorno al cuore della comunità, un momento in cui la vita rurale si mostra in tutta la sua forza simbolica. Le vacche, dopo mesi sugli alpeggi di Gimillan, Ecloseur, Grauson o Valnontey, tornano con il passo lento e maestoso, ornate di fiori, campanacci e nastri colorati. Ogni famiglia cognein segue la propria mandria, spesso guidata da generazioni di allevatori che conoscono ogni animale per nome, per voce, per sguardo.
Un tempo, quando la Devétéya non aveva ancora palchi né turisti, era il momento del raccolto e del racconto. Si tornava con le forme di fontina stagionate nelle grotte, con la pelle arsa dal sole e con le mani segnate dal lavoro. La discesa dalle montagne coincideva con la chiusura del cerchio agricolo: il ritorno al villaggio era festa, ma anche bilancio e rito di passaggio. Le donne preparavano il pane nero e la zuppa di castagne, gli uomini sistemavano i carri e pulivano i campanacci. Ogni suono aveva un significato, ogni gesto un’origine.
Oggi, la Devétéya conserva quella stessa anima, ma ha imparato a raccontarsi anche a chi viene da lontano. I bambini seguono il corteo con gli occhi pieni di stupore, i visitatori scoprono una forma di bellezza che non si lascia fotografare facilmente: quella dell’autenticità. Perché qui, tra i pascoli di Lillaz, Moline e Épinel, le vacche non sono solo animali da reddito — sono compagne di vita, custodi del paesaggio.
La vita in alpeggio, ancora oggi, è fatta di fatica e meraviglia. Da giugno a settembre, i margari salgono con le mandrie a oltre duemila metri. Vivono in baite di pietra, dormono poco, mungono due volte al giorno, e il tempo scorre con la cadenza dei campanacci e del vento. Il pascolo d’alta quota regala erbe aromatiche e fiori che rendono il latte più ricco e la fontina più profumata. Ogni forma di formaggio porta in sé la memoria di un prato preciso, di un’altitudine, di un giorno d’estate.
Ma ciò che commuove, ogni anno, non è solo la bellezza del rito: è la tenacia con cui queste famiglie resistono. Tra modernità e tradizione, tra la necessità di innovare e quella di restare fedeli a un ritmo antico. Le vacche, con il loro sguardo pacifico, sembrano ricordarci che la montagna non si conquista, si rispetta. Che vivere qui significa accettare l’imprevedibile: la grandine, la siccità, il gelo improvviso.
Eppure, quando a settembre il corteo attraversa le strade di Cogne, il paese si ferma. Gli anziani si commuovono, i giovani sorridono, i turisti applaudono. È il momento in cui ogni valle ritrova la propria voce, e in quel suono di campane che riempie le vie e rimbalza contro le montagne, si sente qualcosa di più profondo: la continuità della vita.
La Devétéya non è nostalgia. È un atto d’amore. È la prova che una comunità può ancora riconoscersi nei propri gesti più antichi, nei propri silenzi, nel passo lento delle sue vacche che scendono a valle, portando con sé l’anima viva dell’estate.
Perché in fondo, tra le montagne di Cogne, ogni settembre è un ritorno. E ogni Devétéya è una promessa rinnovata: che la montagna continuerà a parlare, finché qualcuno saprà ancora ascoltarla.
di Mattia Abram












